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Nuovo target terapeutico nell’Alzheimer
(Cell)
La malattia di Alzheimer è caratterizzata dall’iperproduzione di placche formate da β-amiloide, che
può essere contrastata mediante l’uso di proteine appartenenti alla famiglia delle α-secretasi.
In uno studio realizzato al MIT, ratti con iperproduzione di β-amiloide (con conseguenti alterazioni
comportamentali e cognitive
molto simili a quelle dell’Alzheimer) sono stati incrociati con ratti
dotati di iperproduzione di SIRT1 (una molecola che stimola la produzione di α-secretasi e che
rallenta i processi ossidativi e l’invecchiamento).
I figli hanno presentato meno placche di β-amiloide rispetto ai genitori ammalati e sono risultati
protetti contro il deficit di memoria e la perdita di capacità cognitiva. All’opposto, quando i topi
ammalati sono stati incrociati con topi senza l’iperproduzione di SIRT1 si è visto che la prole
presentava più placche di β-amiloide e più danni cognitivi dei genitori.
Il commento a questo articolo:
Si apre una nuova via alla lotta alla demenza di Alzheimer: la stimolazione della produzione di
SIRT1.
Non è ora di facili entusiasmi: non sappiamo gli effetti negativi della SIRT1 e non sappiamo
neppure se in campo umano sia una strada percorribile. Ma un primo passo è stato fatto.
Bibliografia:
Trattamento del cancro della prostata con PSA basso
(Archives of Internal Medicine)
Dopo l’introduzione del test del PSA vengono scoperti molti più cancri della prostata, la maggior
parte dei quali non invasivi, per cui la sopravvivenza a 5 anni di questi soggetti si avvicina al
100%.
Ci si è posti quindi il problema dell’eventuale sovradiagnosi e conseguente trattamento eccessivo.
Per approfondire la questione sono stati utilizzati i dati di un database nazionale riguardante circa
124.000 pazienti ammalatisi di cancro prostatico tra il 2004 e il 2006 e si è visto che il 14% dei
soggetti presentava valori di PSA < 4.0 ng/ml; di questi, poco più della metà avevano una forma di
cancro a basso rischio (stadio < T2a con Gleason < 6).
Di tutti i soggetti con PSA < 4.0 ng/ml, ben il 44% è stato trattato con prostatectomia radicale e il
33% con radioterapia. La probabilità di ricevere un trattamento aggressivo è aumentata
parallelamente all’aumento della stadiazione o del punteggio di Gleason, ma non in base
all’aumento del valore del PSA (quindi sono stati effettuati trattamenti aggressivi anche con PSA
basso).
Il commento a questo articolo:
In base ad uno studio europeo sullo screening del PSA, si devono trattare 48 pazienti per prevenire
un decesso da cancro prostatico, mentre in uno studio scandinavo la prostatectomia radicale non si
è dimostrata migliore della vigile attesa nei soggetti più anziani con un cancro a bassa invasività.
Il problema della sovra diagnosi e dello screening con PSA diventa sempre più urgente ed
importante, soprattutto per quanto comporta il trattamento dei soggetti con PSA basso (inferiore a
10 ng/ml), tanto più se con uno stadio tumorale < 2Ta e un Gleason < 6.
Bibliografia:
Colesterolo HDL e rischio cardiovascolare
(The Lancet)
Mediante studi di prevenzione si è dimostrato che le statine riducono il rischio cardiovascolare e
la mortalità specifica, ma quale è l’importanza prognostica delle varie lipoproteine?
Se il colesterolo LDL diminuisce, ma il colesterolo HDL non aumenta il rischio cardiovascolare si
modifica oppure no? Per rispondere a questi interrogativi sono stati esaminati i risultati ottenuti
con lo studio JUPITER, pubblicato nel 2008, in cui 17.802 soggetti con livelli basali di colesterolo
LDL < 130 mg/dl, valori di PCR ≥ 2 mg/l, non affetti da diabete né malattie cardiovascolari, sono
stati randomizzati a ricevere quotidianamente 20 mg di rosuvastatina o placebo.
Dopo due anni, il gruppo trattato con la statina aveva raggiunto valori medi di colesterolo LDL
pari a 54 mg/dl ed aveva presentato una diminuzione del 50% degli eventi cardiovascolari e una
riduzione del 20% della mortalità specifica.
Con questa nuova analisi dei dati è stato visto che i soggetti appartenenti al gruppo del placebo
che presentavano all’inizio valori elevati di colesterolo HDL sono andati incontro a meno eventi
cardiovascolari rispetto ai soggetti con colesterolo HDL basso. Però nei soggetti del gruppo
trattato
con la rosuvastatina non si è avuta associazione tra i valori del colesterolo HDL e gli
eventi cardiovascolari.
Il commento a questo articolo:
Questo studio post hoc suggerisce che nei soggetti relativamente in buona salute un valore basso
del colesterolo HDL non si associa ad aumento di patologia cardiovascolare.
In soggetti che possiedono un rischio cardiovascolare aumentato, però, questa conclusione non è
valida, come hanno dimostrato altri studi in cui bassi valori di HDL si sono associati a maggiori
eventi
cardiovascolari.
Bibliografia:
Biopsie cerebrali e demenza
(Neurology)
Nei casi in cui non è possibile ottenere una spiegazione all’instaurarsi di un declino cognitivo
rapido e progressivo mediante i soliti accertamenti non invasivi, è stato proposto il ricorso alla
biopsia cerebrale.
In uno studio realizzato alla Emory University di Atlanta alcuni neurochirurghi hanno riesaminato
le cartelle cliniche di 51 adulti sottoposti a biopsia cerebrale tra il 1999 e il 2008 per determinare le
cause di un declino cognitivo acuto o subacuto.
I soggetti con lesioni cerebrali a massa, tumori maligni o infezione da HIV sono stati esclusi. Le
diagnosi più comuni pre-operatorie sono state: vasculite (24 casi), encefalite (8 casi), m. di
Creutzfeldt-Jakob
(7 casi). La biopsia cerebrale ha stabilito la diagnosi in 18 casi: Creutzfeldt-
Jakob
(8), amiloidosi (3), linfoma (2), encefalite (2), demielinizzazione (2) e infarto (1).
Le rimanenti biopsie hanno identificato solamente una infiammazione aspecifica (20) o sono
risultate del tutto normali (13). L’esito delle biopsie ha comportato un nuovo approccio
terapeutico
solamente in 4 casi, e solamente i 2 soggetti con linfoma hanno dimostrato un benefico
dal nuovo trattamento. In due soggetti si sono verificate emorragie cerebrali post-biopsia.
Il commento a questo articolo:
E' vero che la biopsia cerebrale ha stabilito una diagnosi di certezza in circa 1/3 dei casi, ma è
anche vero che solamente 2 pazienti hanno tratto giovamento da tale procedura, senza contare i
rischi connessi con la procedura.
La biopsia cerebrale rimane una procedura da adottare solamente in casi eccezionali e con tutte le
dovute precauzioni: non può certamente divenire una procedura di routine.
Piccola annotazione: la vasculite, diagnosticata in circa la metà dei pazienti, non è stata confermata
in nessun caso dalla biopsia: diagnosi errata? Sovrastima di una patologia poco frequente?
Bibliografia:
Circonferenza vita e mortalità
(Archives of Internal Medicine)
La circonferenza addominale, quale espressione di adiposità centrale, è associata alla resistenza
insulinica, al diabete di tipo 2, alla dislipidemia e alle coronaropatie, con il risultato che esiste una
relazione evidente tra la misura dell’addome e l’aspettativa di vita.
Questa relazione è indipendente dal BMI ed è stata dimostrata da parecchi studi, ma non è ancora
stato esaminato direttamente il rapporto tra circonferenza addominale e rischio di decesso, per cui
sono stati utilizzati i dati di un ampio studio nutrizionale riguardante circa 105.000 adulti di età ≥
50 anni, prevalentemente di razza bianca.
Tra il 1997 e il 2006 si sono verificati circa 15.000 decessi, tra i soggetti esaminati. Mediante
analisi aggiustate per parecchi fattori demografici e relativi allo stile di vita (comprendendo anche
il BMI), si è visto che il rischio di mortalità globale è fortemente associabile alla misura della
circonferenza addominale: ad esempio, il rischio di morte è risultato maggiore del 102% nei
soggetti maschi con circonferenza > 120 cm, rispetto a quelli con valore < 90 cm.
Per le donne, i due valori sono risultati rispettivamente 110 cm e 75 cm: quelle con la
circonferenza maggiore hanno presentato un rischio di mortalità superiore di circa il 136%. Da
notare che la circonferenza addominale si è associata a maggiori rischi all’interno di tutte le
categorie di BMI, costituendo quindi un fattore prognostico indipendente.
Il commento a questo articolo:
La misura della circonferenza addominale, conseguenza di una distribuzione centrale del grasso
corporeo
, è un parametro di importanza notevole nella gestione di un paziente, e si devono
compiere tutti gli sforzi possibili per ottenere valori che non comportino aumento di mortalità (120
cm per i maschi e 90 cm per le donne sono il massimo consentibile).
Bibliografia:
Shunt destro-sinistro
(Chest)
Nei pazienti che soffrono di emicrania o che sono stati colpiti da accidenti vascolari cerebrali si
richiede spesso un ecocardiogramma con infusione salina alla ricerca di un eventuale shunt dx-sn
che giustifichi la situazione clinica.
Diventa quindi fondamentale sapere quale sia la vera prevalenza di tale shunt nella popolazione.
Alcuni ricercatori di Milwaukee hanno eseguito ecocardiogrammi con contrasto salino a 104
volontari sani, di età compresa tra 18 e 55 anni: è stata riscontrata la presenza di shunt dx-sn nel
70% dei soggetti; tale shunt era dovuto ad una persistenza del forame ovale nel 38%, a
malformazioni artero-venose nel 28% e ad entrambe le situazioni presenti contemporaneamente
nel 5% dei casi.
La maggior parte degli shunt erano di dimensioni piccole o moderate. Circa il 40% dei partecipanti
accusava storia di emicrania, ma la prevalenza dello shunt è stata del tutto indipendente dalla
presenza dell’emicrania.
Il commento a questo articolo:
In base a questo studio la prevalenza nella popolazione generale di uno shunt cardiaco destro-
sinistro è molto alta, superiore a quanto accertato da studi precedenti.
Tale risultato potrebbe essere spiegato dall’accuratezza e dal rigore con cui il protocollo di ricerca
è stato applicato in questo studio. La conseguenza di questa indagine è molto semplice: la presenza
di uno shunt cardiaco nella maggior parte dei casi non ha nulla a che vedere con l’emicrania o con
eventi cardiovascolari cerebrali, e l’ecocardiogramma con contrasto salino non ha ragione di essere
richiesto.
Bibliografia:
Dieta ipoglicidica o ipolipidica?
(Annals of Internal Medicine)
Gli studi finora pubblicati sul confronto tra dieta ipoglicidica e ipolipidica hanno tenuto conto di
risultati a breve termine, per cui adesso vengono pubblicati negli USA i risultati di uno studio di 2
anni in cui 307 adulti obesi (BMI medio 36 kg/m2) sono stati randomizzati ad una dieta
ipoglicidica senza restrizione lipidica oppure ad una dieta ipolipidica (circa il 30% delle calorie
derivate dai grassi).
Tutti i partecipanti hanno ricevuto istruzioni comportamentali, sia per quanto riguarda
l’autocontrollo del peso sia per quanto riguarda l’attività fisica. Sono stati esclusi dallo studio i
diabetici e i pazienti con alterazioni del metabolismo lipidico. Con entrambi i tipi di dieta la
perdita di peso è stata approssimativamente di 11 kg dopo un anno e di altri 7 anni dopo due anni.
Non si è registrata differenza, al termine, nel livelli di trigliceridi, di colesterolo LDL, di rapporto
colesterolo totale/HDL. Sono invece risultati più elevati i livelli di HDL nel gruppo alimentato con
la dieta ipoglicidica (circa 2 mg/dl in più). L’adesione continuata alla dieta è stata di circa il 50%
dopo i due anni.
Il commento a questo articolo:
A parte la disquisizione se sia meglio ridurre i carboidrati o i lipidi, ai fini dimagranti, il dato
notevole di questo studio è che il 50% dei partecipanti ha abbandonato la dieta entro 2 anni, e
questo la dice lunga sulla difficoltà di perdere peso.
Bibliografia:
Tiroxina e capacità cognitiva nell’ipotiroidismo subclinico
(Journal of Clinical Endocrinology and Metabolism)
Nei soggetti adulti con ipotiroidismo subclinico (TSH aumentato e fT4 normale) la
somministrazione di supplementazione di tiroxina è in grado di migliorare la funzione
cognitiva
?
Per rispondere a questa domanda è stato fatto uno studio inglese in cui 94 soggetti di età superiore
a 64 anni e ipotiroidismo subclinico sono stati trattati con tiroxina (fino a normalizzare il TSH) o
placebo.
Al momento dell’arruolamento, il livello medio di TSH era di 6.6 mU/l, ed i soggetti sono stati
identificati mediante screening e non in base a valutazioni cliniche. Sono stati effettuati test
cognitivi
all’inizio dello studio, dopo 6 mesi e dopo un anno.
Il punteggio non è risultato differente tra i soggetti trattati e quelli di controllo, né all’inizio né dopo
6 o 12 mesi. I livelli di TSH erano tornati alla normalità dopo 6 mesi nell’85% dei partecipanti
trattati con tiroxina; interessante anche il dato che nei controlli trattati con placebo il TSH si è
normalizzato spontaneamente dopo 12 mesi nel 50% dei partecipanti.
Il commento a questo articolo:
Negli anziani con ipotiroidismo subclinico la somministrazione di tiroxina non ottiene
miglioramenti cognitivi.
Inoltre, il TSH tende a normalizzarsi spontaneamente nella metà dei soggetti, per cui una semplice
vigile attesa e monitoraggi annuali sono più che sufficienti per affrontare questo tipo di pazienti.
Bibliografia:
Profilassi trombotica in chirurgia ortopedica
(Annals of Internal Medicine)
Nei pazienti sottoposti a chirurgia ortopedica si attua abitualmente una profilassi anti-trombosi di
lunga durata, ma questa pratica è veramente utile e necessaria?
Con uno studio multinazionale, sponsorizzato dall’industria farmaceutica, è stata valutata
l’efficacia di una profilassi prolungata in pazienti acuti: tutti sono stati trattati con enoxaparina
per 10 giorni, poi sono stati randomizzati a ricevere ulteriori iniezioni di eparina oppure placebo
per altri 28 giorni.
Sono stati fatti dei controlli quando il 75% dell’arruolamento era stato raggiunto (3.685 pazienti) e
non si sono registrate differenze tra enoxaparina e placebo per quanto riguarda i fatti
tromboembolici; si è invece vista una maggior tendenza agli episodi emorragici nel gruppo trattato
con l’eparina (0.64% contro 0.29%).
Visti questi risultati parziali lo studio è stato terminato precocemente. Analizzando la tipologia di
pazienti che hanno partecipato al trial, si è visto che erano per lo più malati con necessità di
allettamento prolungato e con altri fattori di rischio tromboembolico.
L’analisi finale, su 4.995 soggetti da entrambe le fasi dello studio, ha mostrato un minor tasso di
tromboembolie nel braccio dell’eparina (2.5% contro 4.0%) e una riduzione assoluta dello 0.8%
nelle tromboembolie venose sintomatiche (quasi tutte trombosi venose profonde e non embolie
polmonari). Non si è invece registrata differenza nella mortalità totale.
Il commento a questo articolo:
La profilassi a lungo termine con eparina comporta sicuramente dei problemi: in base ad analisi
effettuate a metà dello studio risulta più dannosa che utile (aumenta gli episodi emorragici senza
ridurre quelli trombotici).
Considerando invece solo i pazienti ad alto rischio, si osserva una diminuzione degli episodi
trombotici di circa l’1.5%, anche se gli autori dello studio non specificano quale sia stato il periodo
di allettamento dei vari partecipanti, per cui le condizioni di rischio trombotico possono essere
state notevolmente differenti tra un soggetto e l’altro.
Stando così le cose, non possiamo ancora sapere quali siano le caratteristiche dei pazienti
candidati ad una profilassi prolungata: indubbiamente la somministrazione indiscriminata di
eparina a tutti i pazienti ortopedici chirurgici è una abitudine che deve essere abbandonata.
Bibliografia:
Incidenza e prevalenza dell’artrite reumatoide nelle donne
(Arthritis & Rheumatism)
Anche se i fattori genetici sicuramente giocano un ruolo importante, alla base dell’incidenza e
della prevalenza dell’artrite reumatoide ci sono indubbiamente altri fattori.
Per verificare la portata di questa malattia alcuni ricercatori della Mayo Clinic hanno esaminato i
dati relativi ai casi di artrite reumatoide diagnosticata nella contea di Olmsted, nel Minnesota, tra il
1995 e il 2007.
Si è scoperto un modesto aumento della malattia durante questo periodo, ma solamente nelle
donne: sono state sviluppate numerose ipotesi per spiegare questo dato, ipotizzando una
diminuzione del fumo di sigaretta nelle donne, una maggior deficienza di vitamina D, un maggior
ricorso a contraccettivi orali con ridotte quantità di estrogeni (gli estrogeni rivestono un ruolo
protettivo nei confronti dell’instaurarsi dell’artrite reumatoide), anche se la parola definitiva non è
stata ancora detta e indubbiamente altri fattori intervengono nella genesi di questa malattia.
Il commento a questo articolo:
In base ai risultati di questa limitata analisi, l’incidenza dell’artrite reumatoide non è affatto in
declino, come da più parti si è affermato; anzi, nelle donne risulterebbe un lieve aumento, anche se
siamo ancora lontani dal capirne il motivo.
Bibliografia:
Exenatide settimanale
(The Lancet)
Nel diabete di tipo due si possono utilizzare farmaci ad azione incretino-mimetica, per stimolare
la secrezione insulinica e attenuare il rilascio di glucagone, ritardando contemporaneamente lo
svuotamento gastrico.
Tra questi, l’exenatide (un agonista dei recettori del peptide-1 glucagone-like: GLP-1) necessita di
una - due somministrazioni quotidiane, per cui è allo studio una formulazione long acting, con
somministrazione settimanale.
Su un meccanismo di azione simile si basa il sitagliptin (un inibitore della dipeptidil-peptidase-4),
che rallenta la degradazione del GLP-1 endogeno. Questo tipo di farmaci possono rappresentare
alternative terapeutiche alle sulfoniluree o ai tiazolidinedioni quando la sola metformina non è in
grado di controllare il diabete.
Alcuni ricercatori hanno randomizzato 491 adulti con diabete di tipo 2 (livelli di HbA1c compresi
tra 7.0% e 11.0%, in terapia con metformina) ad aggiungere exenatide (2 mg sottocute in monodose
settimanale) o sitagliptin (100 mg giornalieri) o pioglitazone (45 mg al giorno).
Ogni soggetto ha anche ricevuto placebo orale o iniettivo. Dopo 26 settimane l’exenatide ha
abbassato i livelli medi di HbA1c maggiormente rispetto al pioglitazone e al sitagliptin (-1.5%
contro -1.2% e -09%). I diabetici trattati con exenatide settimanale hanno anche perso più peso
corporeo
(-2.3 kg, contro -0.8 kg con il sitagliptin e +2.8 kg con il pioglitazone).
Non si sono registrati episodi importanti di ipoglicemia, mentre gli effetti collaterali più comuni
con exenatide e sitagliptin sono stati nausea e diarrea. Con il pioglitazone si sono invece registrati
più frequentemente infezioni delle alte vie respiratore ed edemi periferici.
Il commento a questo articolo:
In uno studio precedente l’exenatide in monodose settimanale si è dimostrato migliore
dell’insulina glargine giornaliera per ottenere il controllo glicemico e il calo ponderale. Con tutta
probabilità la formulazione settimanale diventerà un caposaldo nella terapia del diabete di tipo 2.
Bibliografia:
Osteoporosi postmenopausale
(JAMA - Journal of the American Medical Association, Journal of Bone and Mineral
Research, Journal of Clinical Endocrinology and Metabolism, Menopause, New England Journal of
Medicine , Osteoporosis International)
Nonostante esistano farmaci in grado di ridurre il rischio di fratture del 50%-70% dopo 6-12 mesi
di trattamento, l’osteoporosi in postmenopausa rimane spesso non riconosciuta e di conseguenza
non trattata, con le conseguenze facilmente prevedibili.
La North American Menopause Society (NAMS), nelle sue dichiarazioni del 2010 afferma che
tutte le donne in postmenopausa dovrebbero essere valutate per i fattori di rischio associati
all’osteoporosi, per riconoscere i fattori di rischio di fratture, eliminare le eventuali cause di
osteoporosi secondaria, modificare i fattori di rischio e scegliere le candidate alla terapia
farmacologica.
Per valutare meglio il rischio di fratture abbiamo adesso a disposizione l’algoritmo FRAX, mentre
da parte del NAMS viene raccomandato il trattamento farmacologico per tutte le pazienti con
diagnosi clinica (fratture vertebrali o di femore) o densitometrica (T score < -2.5) di osteoporosi.
Viene raccomandata la terapia farmacologica anche per quelle donne con T score compreso tra -2.5
e -1.0 ma che presentino un rischio di fratture a 10 anni maggiore del 20%, calcolato con
l’algoritmo FRAX.
In campo terapeutico alla schiera dei bifosfonati si aggiunge anche il denosumab, un anticorpo
monoclonale umano che inibisce la genesi di osteoclasti. Con un ampio trial questo farmaco ha
ridotto il rischio di fratture vertebrali e femorali, mediante due iniezioni sottocutanee all’anno, per
cui diventa il farmaco di scelta nelle pazienti con ridotta funzionalità renale o che non tollerino i
bifosfonati.
A proposito di quest’ultima terapia si discute molto sulla necessità di interruzione dopo 3 anni:
quando pazienti con osteoporosi interrompono l’assunzione di risedronato dopo 3 anni, nonostante
si verifichi una caduta della densità ossea ed un aumento dei marker di turnover osseo, le fratture
vertebrali si presentano con un’incidenza dimezzata rispetto alle donne che hanno utilizzato
placebo.
Nelle donne trattate con alendronato per 5 anni, le fratture successive si presentano con frequenza
simile, indipendentemente dal prosieguo o meno dell’assunzione del bifosfonato, anche se le donne
trattate per 10 anni presentano meno fattori di rischio di frattura rispetto a quelle trattate per 5 anni.
Il commento a questo articolo:
Le strategie diagnostiche e terapeutiche dell’osteoporosi si sono ormai affinate ed arricchite di
nuovi ed efficaci presidi. L’osteoporosi rimane un grave problema nelle donne in menopausa (e non
solo), per cui occorre diagnosticarla e trattarla per tempo, dal momento che le sue conseguenze
peggiori (le fratture) continuano ad occupare i primissimi posti nella scala delle patologie dell’età
avanzata.
Bibliografia:
Embolia polmonare silente nelle TVP
(American Journal of Medicine)
In base a riscontri autoptici si è visto che la diagnosi di embolia polmonare, anche in casi di
importante estensione, viene spesso non effettuata, per cui ci si è chiesti se lo screening per embolia
polmonare debba essere effettuato nei pazienti con trombosi venosa profonda (TVP), anche in
assenza di sintomi respiratori.
E' stata realizzata una review sistematica di 28 studi prospettici per verificare la prevalenza di
embolia polmonare in pazienti con TVP. Le ricerche sono state stratificate in due gruppi: nel primo
sono stati inclusi tutti i casi in cui l’embolia polmonare è stata diagnosticata con 'elevata probabilità'
mediante indagine sul rapporto ventilazione/perfusione (secondo i criteri PIOPED) oppure
mediante angiografia polmonare; nel secondo gruppo tutti i casi in cui la diagnosi è stata effettuata
mediante la determinazione del rapporto ventilazione/perfusione non utilizzando i criteri PIOPED.
Nel complesso, l’embolia polmonare silente è stata diagnosticata nel 32% dei 5.233 pazienti affetti
da TVP (27% nel primo gruppo, 37% nel secondo). La prevalenza è stata maggiore nei soggetti
affetti da TVP prossimale (36% contro 13% delle TVP distali). La presenza di embolia polmonare
silente è stata anche associata ad un maggior rischio di embolia polmonare ricorrente.
Il commento a questo articolo:
A parte i criteri diagnostici più o meno rigorosi, il dato che balza evidente è la frequenza delle
embolie polmonari non sintomatiche in pazienti affetti da TVP (circa un terzo dei pazienti), anche
se lo screening di routine è improponibile, sia per il costo sia per l’esposizione del paziente a
radiazioni.
La terapia anticoagulante rimane il cardine della prevenzione, e l’aggiunta di filtri cavali o di
trombolitici non è suffragata da dati di evidenza.
Bibliografia:
Terapia endocrina adiuvante nel cancro mammario
(Journal of Clinical Oncology )
In base ai risultati pubblicati nel 2004, l’American Society of Clinical Oncology (ASCO) ha
aggiornato le sue linee-guida sul trattamento del cancro mammario, focalizzando l’attenzione
sull’uso del tamoxifene e degli inibitori dell’aromatasi. I punti salienti sono i seguenti:
le donne con tumori positivi ai recettori estrogenici dovrebbero utilizzare gli inibitori
dell’aromatasi, sia come terapia adiuvante primaria sia dopo 2-3 anni di uso di tamoxifene,
fino ad un totale di almeno 5 anni;
le donne che dopo un periodo iniziale degli inibitori dell’aromatasi dovessero interrompere
per qualche motivo l’assunzione dovrebbero utilizzare il tamoxifene per poter raggiungere i
5 anni di terapia adiuvante;
le donne che hanno utilizzato tamoxifene per 5 anni possono avere ulteriori benefici dal
ricorso agli inibitori dell’aromatasi per ulteriori 5 anni di terapia adiuvante;
non si consiglia il ricorso a particolari marker per individuare quale sia la scelta terapeutica
ottimale;
a causa delle interazioni, occorre prestare particolare attenzione all’uso del tamoxifene
associato agli inibitori del citocromo P2D6 (paroxetina, fluoxetina, bupropione);
occorre tenere presenti i differenti effetti collaterali dei due farmaci: tromboembolismo
venoso, cancro endometriale, polipi ed iperplasia endometriale con il tamoxifene;
osteoporosi, artralgia e fratture con gli inibitori dell’aromatasi. Se gli effetti collaterali
diventassero intollerabili, si può effettuare il passaggio da una all’altra classe di farmaci;
le donne in cui si effettua il trattamento in pre-menopausa dovrebbero iniziare con il
Il commento a questo articolo:
La novità di queste linee-guida risiede nell’introduzione degli inibitori dell’aromatasi negli
schemi di terapia endocrina adiuvante, che prima era occupata esclusivamente dal tamoxifene.
Occorre tenere presente gli effetti negativi sullo scheletro, per cui le donne destinate a questa
terapia dovrebbero monitorare la loro densità ossea ed eventualmente ricorrere ai bifosfonati, se
necessario.
Altri punti da tenere presente sono la tendenza al tromboembolismo venoso delle donne obese e la
tendenza alla depressione delle donne affette da cancro mammario; condizioni entrambe che
impongono una particolare attenzione nella prescrizione del tamoxifene (a proposito della
depressione, la venlafaxina è il farmaco più indicato in queste condizioni, dal momento che la sua
interazione con il citocromo P2D6 è minima).
Bibliografia:
Gotta e scompenso cardiaco
(Archives of Internal Medicine)
Anche se è constatazione abituale che la presenza di iperuricemia aggrava la prognosi dei pazienti
con insufficienza cardiaca, non è ancora chiaro quale sia l’effetto dell’allopurinolo in queste
circostanze.
Alcuni ricercatori canadesi hanno utilizzato un database per realizzare uno studio retrospettivo
che ha coinvolto circa 25.000 soggetti con insufficienza cardiaca ricoverati o deceduti durante un
periodo di 2 anni, confrontandoli con 250.000 pazienti nelle stesse condizioni cliniche ma non
ricoverati né deceduti.
Mediante analisi aggiustate per un ampio numero di fattori di confondimento (clinici, sociali,
demografici e metabolici) i pazienti con storia di gotta hanno presentato un rischio cardiaco
maggiore del 63% rispetto ai pazienti senza anamnesi di iperuricemia; tale rischio è risultato
maggiore del 106% per i soggetti con storia di gotta recente.
Non si è riscontrata alcuna evidenza che l’uso pregresso dell’allopurinolo influisca su tale rischio
per quanto riguarda la popolazione generale, ma si è visto che l’uso di tale farmaco riduce il
rischio cardiaco del 31% solamente nel periodo in cui viene assunto.
Il commento a questo articolo:
Lo studio è di tipo retrospettivo, per cui i suoi risultati non dovrebbero influenzare la pratica
clinica
; i risultati sono comunque credibili da un punto di vista biologico: l’allopurinolo inibisce un
enzima che provoca ossidazione, per cui sarebbe opportuno realizzare uno studio randomizzato
sulla sua efficacia nello scompenso cardiaco, per lo meno nei pazienti con storia di iperuricemia.
Bibliografia:
Controllo intensivo dell’ipertensione nei nefropatici
(New England Journal of Medicine )
Nello studio AASK (African-American Study of Kidney Disease and Hypertension) si sono
esaminati 1094 soggetti non diabetici, di razza nera, con nefropatia causata da ipertensione,
randomizzandoli ad un trattamento antipertensivo standard o intensivo.
Nonostante il valore pressorio medio ottenuto mediante trattamento intensivo (130/78 contro
141/86 mmHg), l’outcome composto ottenuto - riduzione del 50% della filtrazione glomerulare,
malattia renale in stadio terminale, decesso - è stato raggiunto con frequenza simile nei due gruppi.
Per quanto riguarda i farmaci, sono stati utilizzati ramipril, metoprololo e amlodipina: i risultati
migliori sono stati ottenuti con l’ACE-inibitore. Dopo la fase di randomizzazione, i soggetti sono
stati seguiti per circa 6 anni in una fase 'di coorte', in cui l’obiettivo è stato di ridurre la PAOS al di
sotto dei 130/80 mmHg, trattando tutti con ramipril (più altri farmaci qualora necessario).
Durante questa fase la pressione è rimasta leggermente più bassa nel gruppo del trattamento
intensivo iniziale (circa 3 mmHg in meno) rispetto al gruppo trattato in modo standard. Adesso i
ricercatori di quello studio hanno pubblicato i dati finali, al termine di 10 anni di follow-up.
La frequenza dell’endpoint composto (creatinina raddoppiata, insufficienza renale terminale,
decesso) è rimasta simile nei due gruppi: circa 7 eventi/100 persone/anno. Però nei soggetti in cui,
all’inizio dello studio, il rapporto proteine/creatinina oltrepassava 0.22 (corrispondente
grossolanamente a 300 mg di proteinuria) il controllo intensivo della pressione si è associato ad una
diminuzione significativa dell’endpoint (Hazard Ratio 0.73). All’opposto, nei soggetti in cui il
rapporto era ≤ 0.22 non si sono visti risultati migliori rispetto al trattamento standard.
Il commento a questo articolo:
Nel complesso, lo studio AASK non conferma l’efficacia di un trattamento intensivo
dell’ipertensione al fine di ottenere un miglioramento delle funzioni renali: solamente nei pazienti
con una compromissione renale in atto si ottengono risultati positivi con un controllo pressorio
intensivo, anche se non sappiamo perché.
Bibliografia:
Sibutramina ed eventi cardiovascolari
(New England Journal of Medicine )
La perdita di peso è fondamentale per la prevenzione degli eventi cardiovascolari, per cui si
attuano sempre studi per cercare soluzioni efficaci al sovrappeso e all’obesità.
In questo studio sponsorizzato dall’industria farmaceutica sono stati riuniti oltre 10.000 soggetti
con eccesso ponderale e con fattori noti di rischio cardiovascolari oppure con diabete di tipo 2 e
almeno un altro fattore di rischio.
Dopo 6 settimane di trattamento mediante sibutramina, i partecipanti che la tolleravano sono stati
trattati ulteriormente con sibutramina o placebo per oltre 3 anni, ricevendo nel contempo anche un
counselling riguardante la dieta e l’esercizio fisico.
La perdita di peso al termine è risultata di 2 kg superiore nel gruppo trattato con la sibutramina, ma
in questo gruppo è stata significativamente maggiore l’incidenza dell’endpoint primario (infarto,
stroke, decesso da causa cardiovascolare): 11.4% contro 10.0%; P=0.02. La maggiore presenza di
effetti collaterali è stata causata da un eccesso di infarti e stroke non fatali, mentre i dati sulla
mortalità cardiovascolare sono stati identici nei due gruppi.
Il commento a questo articolo:
Negli USA esiste una controindicazione all’uso della sibutramina in pazienti cardiopatici o ipertesi
non controllati. I risultati di questo studio confermano tale restrizione e, ad essere sinceri, il piccolo
guadagno che si ottiene in termini di calo ponderale non è bilanciato dagli effetti negativi,
decisamente pesanti.
Probabilmente la scelta migliore è quella di non utilizzare il farmaco su nessun paziente, come da
recente raccomandazione dell’Authority europea.
Bibliografia:
Bupropione e naltrexone per dimagrire
(The Lancet)
Nell’armamentario di farmaci per ottenere perdita di peso sono presenti prodotti che
effettivamente producono un calo ponderale ma non vengono utilizzati a questo scopo a causa dei
pesanti effetti collaterali, quali ad esempio il rimonabant (un antagonista dei recettori dei
cannabinoidi, recentemente sospeso dal commercio) e, in parte, la sibutramina.
Al momento è allo studio l’associazione tra bupropione e naltrexone, che agiscono sinergicamente
sul senso di sazietà e sul sistema mesolimbico. Sono stati randomizzati 1742 obesi (85% donne;
BMI medio 36 kg/m2), senza diabete o malattie cardiovascolari, a ricevere una combinazione di
bupropione (180 mg due volte al giorno) e naltrexone (8-16 mg due volte al giorno) oppure placebo.
Lo studio è durato 52 settimane a dose piena e ulteriori 4 settimane per scalare i farmaci. La
sponsorizzazione è stata effettuata da una ditta farmaceutica che produce compresse con i due
farmaci già associati. La percentuale di abbandono dello studio è stata elevata: circa la metà dei
soggetti in entrambi i gruppi hanno lasciato la sperimentazione durante le prime 16 settimane.
Con un'analisi intent-to-treat la perdita media di peso è stata significativamente maggiore nel
gruppo trattato attivamente rispetto al gruppo del placebo (-6.1% e -5.0% con i due dosaggi di
naltrexone; -1.3% con il placebo). Gli effetti collaterali (nausea, vomito, stipsi, cefalea, vertigini,
secchezza delle fauci) sono stati di intensità lieve-moderata e transitori.
Il commento a questo articolo:
I risultati sembrano buoni, ma occorre effettuare test su campioni più ampi di popolazione. Un
editorialista pone l’accento sugli effetti secondari a livello psichiatrico e cardiovascolare, che
devono essere esplorati in modo più approfondito e che impongono comunque una grossa cautela
nell’impiego dei due farmaci.
Bibliografia:
Supplemento di calcio e rischio di infarto
(British Medical Journal (BMJ))
In base agli studi finora pubblicati sappiamo che l’eccesso di calcio favorisce le calcificazioni
vascolari
, aumenta la mortalità nei pazienti con insufficienza renale e genera un rischio di infarto
nelle donne anziane non cardiopatiche.
Per verificare ulteriormente il legame esistente tra eccesso di calcio e rischi cardiovascolari è stata
realizzata una metanalisi di 15 studi randomizzati in doppio cieco, in cui i partecipanti (di età media
superiore a 40 anni) hanno ricevuto un supplemento giornaliero di calcio (almeno 500 mg) oppure
placebo.
Analizzando i dati di oltre 8000 soggetti, di cui il 77% donne, si è visto che dopo un periodo di 3.6
anni sono insorti 143 infarti nel gruppo trattato con il calcio e 111 in quello trattato con placebo. La
differenza possiede significatività statistica. Non si sono invece registrate differenze per quanto
riguarda l’incidenza di stroke o i decessi.
Il commento a questo articolo:
Il supplemento di calcio si associa ad un aumentato rischio di infarto, e questo deve essere tenuto
presente quando si decide di intraprendere una terapia integrativa con calcio: il beneficio modesto
sulle ossa e sul rischio di fratture è ampiamente bilanciato dal danno cardiaco.
In base ai dati rilevati gli autori dello studio ritengono che trattare 1000 persone con calcio per 5
anni provocherebbe una diminuzione di 26 fratture ma un aumento di 14 infarti.
Bibliografia:
Diametro dell’aorta negli atleti
(Circulation)
Non è sempre agevole distinguere le modificazioni che intervengono nel cuore degli atleti da
quelle che sono vere e proprie patologie cardiache: ad esempio il rimodellamento ventricolare
sinistro può essere scambiato per ipertrofia, e la stessa difficoltà si riscontra nella valutazione del
diametro della radice aortica, normalmente ritenuto conseguenza fisiologica dell’aumentata gittata
cardiaca.
A questo proposito è stato posto, negli atleti, il limite massimo normale di 40 mm nei maschi e di
34 mm nelle femmine, ma la questione non è ancora chiara. Utilizzando i dati del Comitato
Nazionale Olimpico Italiano
, alcuni ricercatori hanno identificato 2317 atleti (1300 maschi) privi
di affezioni cardiache che erano stati sottoposti ad ecocardiografia iniziale e seguiti poi per circa 8
anni.
All’inizio 17 maschi e 10 femmine (nessuno affetto da S. di Marfan) presentavano un diametro
della radice aortica superiore al limite suddetto. Tra i maschi tale diametro è aumentato durante il
follow-up da 41 a 43 mm ed in tre atleti ha superato i 48 mm.
Non si sono invece osservati cambiamenti nelle femmine. Con analisi aggiustate si è vista
un’associazione significativa tra il diametro della radice aortica e il peso corporeo, la statura, la
massa del ventricolo sinistro e l’età; da un punto di vista degli sport l’associazione più forte è stata
con ciclismo, nuoto e basket.
Il commento a questo articolo:
Il risultato di questo studio italiano conferma i limiti ritenuti normali per gli atleti (40 mm e 34
mm, nei maschi e nelle femmine), considerando pertanto non normali e degni di ulteriori indagini i
valori eccedenti.
Bibliografia
:

Source: http://fcaprio.myblog.it/media/01/01/2087359668.pdf

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